La parrocchia Maria SS. del Carmine sceglie nel concreto di vivere un’opera di misericordia corporale “accogliere i forestieri” con una iniziativa di solidarietà!
Ancora una volta abbiamo scelto di passare all’altra sponda dell’Adriatico per approdare nella terra delle due aquile! Ancora una volta le nostre mani incontrano quelle dei piccoli, dei grandi e degli anziani già conosciuti nelle esperienze passate. Il nostro pulmino attraversa le strade polverose e densamente trafficate delle periferie di questa città, Tirana, mentre i miei occhi intravedono l’ammasso indefinito di lamiere, il mio naso avverte il nauseabondo olezzo della baraccopoli del campo rom ma quel che più conta è che le nostre mani sono pronte: ciò che dai è tuo per sempre. È stato uno dei tanti messaggi ricevuti in queste feste. Le piccole vite del campo rom di Tirana corrono lungo le strade trafficate della capitale albanese a elemosinare qualche spicciolo, corrono incontro a noi e io che avrei voluto dire tante cose, poi vi ho preso le mani e… nulla!
Albania, campo rom nei pressi di Tirana. Sono una quarantina le famiglie che vivono qui, senza elettricità ne acqua corrente. Questo luogo è sospeso, sembra che manchi anche l’ossigeno. Relegato ai margini della società e della periferia, il popolo Rom resiste, trattiene il fiato sotto la superficie di una realtà confusa, in cui uomini ed animali arrivano a scambiarsi ruoli in apnea, dentro un mondo alla rovescia.
Discriminato da sempre, il popolo Rom ha subito negli anni del Nazismo uno dei più gravi omicidi di massa della storia, senza ricevere negli anni successivi nessun tipo di indennità, nessuna forma di risarcimento da parte della comunità internazionale. E quando, nel 1946 l’Albania è entrata nella dura e lunga parentesi del regime di Enver Hoxha, i Rom hanno sofferto di uno stravolgimento di ritmi, abitudini e costumi senza precedenti.
Oggi vivono con enormi difficoltà, soprattutto all’interno di una città come Tirana, che sta attraversando un rapidissimo processo di modernizzazione. Sono molti i problemi legati alla comunità Rom albanese: salute, igiene, analfabetismo, lavoro minorile, traffico d’organi, sindrome di down, diabete, delinquenza, discriminazione, mancanza di aiuto delle istituzioni…. Di fatto non esistono piani di intervento, né reali forme di supporto da parte del Governo albanese. L’Albania si candida per entrare in Europa. Un passo importante per diventare membro dell’UE può essere proprio offrire esempi concreti di sviluppo culturale, politico ambientale, di crescita dei dritti sociali, dell’assistenza medica.
Prima nel 2008 il Governo italiano, poi nel 2010 quello francese hanno dichiarato che i Rom rappresentano un rischio per la sicurezza nazionale, tale da determinare la cosiddetta “emergenza nomadi”. Molti politici hanno accusato i Rom di essere i principali responsabili della crescita del crimine e della delinquenza nelle aree urbane. È facile comprendere quanto siano pericolose e tragicamente lontane dalla verità generalizzazioni di questo tipo.
L’Internazional Labour Organization (ILO), l’agenzia per il lavoro delle Nazioni Unite, nel suo rapporto sull’applicazione delle “Convenzioni e Raccomandazioni Internazionali” del 6 marzo del 2009, ha condannato l’Italia per il “clima di intolleranza esistente”, creato dai leader politici italiani con l’uso di una “retorica aggressiva e discriminatoria nell’associare i Rom alla criminalità, creando così un sentimento di ostilità nell’opinione pubblica”. Il rapporto chiede, inoltre, al Governo italiano di eliminare il clima di intolleranza, violenza e discriminazione delle comunità Rom, per assicurare loro, sia legalmente che socialmente, i diritti umani fondamentali, facendo in modo che gli atteggiamenti discriminatori siano meglio identificati e condannati.
È bastato abbracciarli e ritrovarli per capire che un’attesa lunga 4 mesi è stata ricompensata. La piccola Sonia mi abbraccia, avvicina la sua bocca al mio orecchio e mi dice: “ti je dhurata ime e Krishtlindjevetu” sei il mio regalo di Natale!”. Tutto ha di nuovo inizio, ma ha mai avuto fine? Certo che no, siamo pronti a spezzare ogni nostra misura, pronti a rinnovare il nostro sguardo su questa parte di mondo, ma soprattutto su coloro che lo vivono. Con loro abbiamo iniziato un cammino, un cammino in cui si segue il ritmo non lo si dà ma ci si fida di Chi lo dà. È stato, ed è, un cammino in cui si cade, in cui più volte si ravvisa la necessità di ribadire le ragioni che lo hanno avviato, un cammino comunque non mosso dall’urgenza di raggiungere un traguardo, ma sostenuto dalla certezza di essere al proprio posto a costruire qualcosa di importante. In estate eravamo una trentina di volontari preferendo volontariato alle vacanze esotiche. In queste feste natalizie siamo in dodici.
In molti ci apprezzano, ci ammirano e ci amano. Abbiamo scoperto che essere felici non è solo celebrare i successi, ma apprendere lezioni dai fallimenti. Non è solo sentirsi allegri con gli applausi, ma essere allegri nell’anonimato.
Con questo gruppo di giovani stabiesi ancora una volta vogliamo passare all’altra sponda: dal sentirsi vittima dei problemi e diventare attori della propria storia.
Nel disagio di questa baraccopoli le malattie colpiscono la quasi totalità dei bambini che vi abitano, le ragazze spesso si prostituiscono per sopravvivere, mentre i ragazzi vivono nelle discariche, sniffano droga e delinquono per procurarsi del cibo. Strade non asfaltate e coperte di fango, fogne a cielo aperto con relativo liquame, baracche fatiscenti e bambini, tanti bambini che corrono sguazzando, giocando, ridendo a piedini nudi o con misere ciabattine.
Bambini ovunque, vestiti senza alcun criterio rispetto alle stagioni e al clima: alcuni hanno canottierine, altri hanno i pile, le bambine hanno vestiti di organza o magliette stracciate. Fumo dappertutto, tra donne che intrecciano capelli o friggono in mezzo alle mosche, uomini che vendono carbone o accudiscono capre. Le case sono dei tuguri senza pavimento con tetti di lamiera sfondata, tutte appiccicate le une alle altre…
In mezzo a questo disastro le Suore di Madre Teresa di Calcutta offrono il paradiso realizzando le parole di Gesù: “lasciate che i bambini vengano a me”.
Siamo onorati di poter collaborare alla costruzione di questo paradiso.
Se il nuovo anno inizia sotto questi auspici che, con occhi purificati dai bambini, leggiamo come “divini”, guardiamo avanti con speranza a dispetto, di ogni crisi reale o indotta, di ogni sconfitta personale o di gruppo, di ogni dubbio e di ogni egoismo. E con le parole di Papa Francesco costruiamo la vera chiesa: «Io vedo con chiarezza che la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità. Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. È inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto. Curare le ferite, curare le ferite… E bisogna cominciare dal basso».