Il nome è l’identità della persona

Pubblicato giorno 23 dicembre 2015 - In home page, Riflessioni al Vangelo

In quei giorni, per Elisabetta si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio. I vicini e i parenti udirono che il Signore aveva manifestato in lei la sua grande misericordia, e si rallegravano con lei. Otto giorni dopo vennero per circoncidere il bambino e volevano chiamarlo con il nome di suo padre, Zaccarìa. Ma sua madre intervenne: «No, si chiamerà Giovanni». Le dissero: «Non c’è nessuno della tua parentela che si chiami con questo nome». Allora domandavano con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse. Egli chiese una tavoletta e scrisse: «Giovanni è il suo nome». Tutti furono meravigliati. All’istante gli si aprì la bocca e gli si sciolse la lingua, e parlava benedicendo Dio. Tutti i loro vicini furono presi da timore, e per tutta la regione montuosa della Giudea si discorreva di tutte queste cose. Tutti coloro che le udivano, le custodivano in cuor loro, dicendo: «Che sarà mai questo bambino?». E davvero la mano del Signore era con lui.

Riflessione a cura di Don Pasquale Somma:

Il punto centrale di questo racconto è la questione del nome da dare al bambino. Il nome indica la natura della persona, la sua missione, il suo valore unico e irripetibile. Zaccarìa ed Elisabetta non seguono l’usanza di imporre al neonato il nome del padre o di un antenato, e chiamano il piccolo “Giovanni”, proprio per indicare il nuovo progetto che Dio sta iniziando in lui. Giovanni non è e non sarà solo, perché, come dice il testo del Vangelo, «davvero la mano del Signore era con lui».
Dopo la nascita del bambino è arrivato il momento di circonciderlo e dargli il nome; una cerimonia tradizionale gioiosa per tutta la famiglia “allargata”. I familiari si rallegrano per la misericordia di Dio, che ha fatto partorire una donna sterile! Tutto sembra andare bene, sono pronti a dare al piccolo il nome del padre come tradizione. Ma si sente echeggiare un forte “no” nella stanza. Elisabetta non è d’accordo, suo figlio si chiamerà Giovanni, che in ebraico significa Dio ha fatto grazia. Lei, una donna semplice, che non ha voce in capitolo, con grinta e coraggio oppone il suo “no” deciso a ciò che non corrisponde alla volontà di Dio. Poi la questione è rimessa a Zaccarìa, il padre, che però è ancora muto: al contrario di sua moglie non ha creduto all’angelo che gli è apparso nel Tempio, e per tutta la gravidanza non ha potuto parlare. Ci si sarebbe aspettati che con la nascita del bimbo gli si sarebbe aperta la bocca, e invece no. Dio attende la sua purificazione totale, vuole da lui un segno, una professione di fede autentica. Solo quando scrive il nome sulla tavoletta e quindi manifesta accoglienza della volontà di Dio, viene “liberato”. E noi? Abbiamo la fede “concreta” e il coraggio di Elisabetta, o ci vergogniamo di gridare il nostro “no” al maligno, giustificandoci con il fatto “che tanto fanno tutti così?”. Oppure siamo come Zaccarìa, preghiamo, presentiamo offerte, ma in fondo abbiamo perso la speranza e, quando Dio concretamente ci viene in aiuto, non ci crediamo e preferiamo andare avanti come prima? Natale è proprio questo: accogliere la novità di un Dio che si fa bambino, che ci dona sempre una nuova possibilità di aderire al disegno divino di salvezza. Questo e solo questo renderà piena e gioiosa la nostra vita.