In quel tempo, Gesù si mise a parlare con parabole [ai capi dei sacerdoti, agli scribi e agli anziani]: «Un uomo piantò una vigna, la circondò con una siepe, scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano. Al momento opportuno mandò un servo dai contadini a ritirare da loro la sua parte del raccolto della vigna. Ma essi lo presero, lo bastonarono e lo mandarono via a mani vuote. Mandò loro di nuovo un altro servo: anche quello lo picchiarono sulla testa e lo insultarono. Ne mandò un altro, e questo lo uccisero; poi molti altri: alcuni li bastonarono, altri li uccisero. Ne aveva ancora uno, un figlio amato; lo inviò loro per ultimo, dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio!”. Ma quei contadini dissero tra loro: “Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e l’eredità sarà nostra!”. Lo presero, lo uccisero e lo gettarono fuori della vigna. Che cosa farà dunque il padrone della vigna? Verrà e farà morire i contadini e darà la vigna ad altri. Non avete letto questa Scrittura: “La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo; questo è stato fatto dal Signore ed è una meraviglia ai nostri occhi”?». E cercavano di catturarlo, ma ebbero paura della folla; avevano capito infatti che aveva detto quella parabola contro di loro. Lo lasciarono e se ne andarono.
A cura di Don Pasquale Somma:
Gesù denuncia in questa parabola la profondità del peccato di ognuno: l’uomo trasforma arbitrariamente in possesso personale ciò che gli è stato affidato come dono, e per difendere questa indebita appropriazione è capace di arrivare a recidere la sorgente divina, fonte del suo essere.
La reazione dei vignaioli rivela dove possa condurre una crisi di identità mal governata: un suicidio morale e una violenza ripetuta. La confusione consiste in un malinteso sul fare che deteriora completamente la persona. I vignaioli sembrano domandarsi: “Se dobbiamo dare i frutti, per che cosa avremmo lavorato?”, eppure colui che viene a chiedere è lo stesso che ha affidato la vigna; inoltre, non riescono a cogliere due evidenze: il padrone chiede “la sua parte”, non tutto, e il fatto di chiedere il frutto del lavoro implica che egli valuti positivamente la loro opera. Ma, una cosa è il servizio, la diaconia, il ministero-sacramento, come il presbiterato: si tratta di un fatto ecclesiale di cui il singolo non può sentirsi padrone, non lo può pretendere e non lo deve esercitare a proprio piacimento. Altra faccenda è il carisma, questo è sì un dono personale dello Spirito, ma sempre in vista della comunità intera; esso riguarda il modo con cui la persona vive, annuncia e promuove l’unico Vangelo di Gesù Cristo. Criterio del carisma è l’unità ecclesiale non l’evidenza o la soddisfazione di colui che ne ha beneficiato. Si parla poi tanto di vocazione! Ad esempio, la vita monastica o religiosa è una vocazione, ma più un carisma personale, per vivere in pienezza uno stato evangelico, da discepoli, fondato sul Battesimo. La vocazione è un evento fondante che orienta al discepolato e dal quale provengono i diversi servizi e ministeri, anche ordinati, la scelta di vita consacrata nelle sue molteplici forme, la scelta del matrimonio. Non esiste, come spesso si afferma, la “vocazione a”; la chiamata è solo “da”, cioè da Gesù Cristo, per stare con Lui e poi viene il resto (Mc 3,13ss.). La vocazione ha la sua origine nel Battesimo, per questo riguarda tutti nella Chiesa.
Quando pensiamo di essere i proprietari della vita, del Creato, della storia, quando togliamo di mezzo il legittimo proprietario, finiamo col distruggere tutto. Viviamo, oggi, con la consapevolezza che tutto è un dono per potere riconoscere nelle cose che sperimentiamo la splendida e discreta presenza salvifica di Dio.